Il teatro è un luogo caratterizzato da diverse forme di occultamento: le quinte celate dal palcoscenico, l'orchestra dal palcoscenico, gli spettatori dal palcoscenico. In ognuna di queste coppie, il palco potrebbe essere visto come uno spazio di rivelazione che allo stesso tempo sottintende un altro elemento nascosto.
Nell'epistemologia occidentale, ciò che viene rivelato, portato alla luce, è ritenuto essere intrinsecamente più vero rispetto a ciò che invece è nascosto. La metafora della conoscenza come illuminazione, del vedere come comprendere, è un luogo comune. Nell'estetica occidentale, da Aristotele a Heidegger, l'arte è anche rivelazione, è portare alla luce ciò che non è immediatamente visibile ai nostri occhi.
Il film Auditorium di Sophy Rickett ci conduce dal palcoscenico alle quinte e all'auditorium del Teatro dell'Opera di Glyndebourne, attraverso una serie di rivelazioni a veli sollevati: luci puntate e spazi scuri resi visibili. Nella sequenza d'apertura, nello schermo a sinistra, strisce di luce salgono dalla base del palco fino alla parte più alta del proscenio, per illuminare (supponiamo), nello schermo a destra, la cupola dell'auditorium. Alla fine, una serie di tende sottili viene sollevata, non per svelare, come ci aspetteremmo, il palcoscenico, ma, per la prima volta, l'auditorium completo, così come è visto dal palcoscenico, miracolosamente rischiarato da luci raggianti.
Però: il palcoscenico è un luogo illusorio e di finzione, non un luogo di verità - o no?
In effetti, nella metafisica occidentale il teatro è spesso stato considerato come metafora dell'illusione e dell'inganno. La caverna di Platone, nella quale gli spettatori sono estasiati dalle ombre proiettate sulla parete e non riescono a riconoscere che solo di ombre si tratta, è una fondamentale rappresentazione del pregiudizio anti-teatrale di lunga data. Nella metafisica occidentale (a differenza dell'epistemologia occidentale), ciò che ci è celato sembra essere implicitamente più certo di ciò che è visibile; ciò che è all'interno è più vero di ciò che vediamo in superficie. Come abbiamo imparato, mai lasciarsi ingannare dalle apparenze. Dietro la spettacolare illusione della scena, si trova la dura realtà dei macchinari dietro le quinte e dei tecnici di scena che li fanno funzionare. Nell'auditorium gli spettatori possono temporaneamente stare al gioco illusorio, ma, a dispetto di Platone, non sono mai veramente illusi, e mettono in relazione il loro giudizio sul mondo reale con ciò a cui si trovano ad assistere.
Auditorium fa diventare il palcoscenico, le quinte e l'auditorium di Glyndebourne la rappresentazione di rivelazioni differite che implicitamente riconoscono le tensioni e le contraddizioni tra le due metafore centrali del teatro: la verità e la conoscenza. Talvolta lo spettacolo è impassibilmente formale e offre l'immagine austera di una verità quasi geometrica. Altre volte sembra trasporre gli spazi moderni e funzionali del Teatro dell'Opera di Glyndebourne in una fantasia barocca, un gioco divertente di spazi illusori.
La presenza umana sembra essere bandita dal teatro, eccetto che per un solitario tecnico scenografico, che intravediamo due volte, impegnato a manovrare le funi che alzano e abbassano i fasci di luce, le tende e la macchina da ripresa. È un momento alla Mago di Oz. Siamo stati portati a credere che questo teatro moderno sia un'impresa di onnipotenza tecnologica. Ma anche dietro questa struttura imponente, non c'è Dio, che invece dirige di nascosto le scene nel Faust di Goethe, ma un tecnico scenografico. Questa è la mise en abîme (letteralmente dal francese "collocazione nell'infinito", "collocazione nell'abisso") della metafisica teatrale, e forse di tutte le metafisiche: alla base della macchina, dopo il gioco di rivelazioni differite, non c'è che un modesto tecnico scenografico. Alla fine, tutto ciò che lo spettacolo può rivelare è un insieme di assenze: la rappresentazione assente dalla scena, l'orchestra assente e, infine, gli spettatori assenti nell'auditorium vuoto.
Nicholas Till