testo di Teresa Macrì
Nero e ampio, un velo copre il volto del cielo, maschera severa sugli occhi del sole… nuvole gonfie di fiele, pioggerellina ocra, aria di terremoto. Anche l'orizzonte è sparito. Fogna melmosa davanti alla porta dell'edificio, slalom morbido fra le pozze, hop. L'ingresso del palazzo è devastato, cassette delle posta sfondate, muri e scale consunti, ragazzini, ragazzini, ragazzini. (1)
Se le parole di Aziz Chouki fossero un rap la musica sarebbe di Eminem, se la città descritta non fosse effettivamente Algeri penseremmo direttamente ai mondi marginali delle suburbs di Botto&Bruno, ai loro cieli intemperanti, ai rumori assordanti e acidi, ai colori distrofici, alle immanenti pozzanghere. Ma il dislocamento delle situazioni è talmente omogeneizzato all'interno della città-globale, città-sipario, città-recinto, che saltano i codici di identificazione. Parigi è come Algeri: un arcipelago di enclaves modernizzate, un serbatoio di micro-appartenenze spurie. Centro e periferia si diramano in flussi di inclusione ed esclusione delle comunità e il muro che li separa è invisibile e crudele perché attraversa il sentimento e su esso organizza l'infelicità, il disagio e la rabbia di chi vive in un paesaggio terminale. Sui suoi segni scolora l'avventura del quotidiano, disidentificando le esistenze ridotte a vacue parvenze, immerse nella solitudine di una urbanistica che diventa sempre piú una prigione di segni e di simboli.
Oramai le strade non parlano piú, perdono singolarità e diventano soltanto budelli in cui catturare e controllare l'individuo, configurandolo in quel meccanismo di anomia sociale. La sua seduzione è la connessione globale, il suo ricatto il consumo costante, ininterrotto, infinito. La sua strategia è l'inganno. La sua pratica lo svuotamento del soggetto attraverso la frammentazione del Sé. Siamo tutti, simultaneamente consumatori e beni di consumo. Liquidi e indefiniti. Di questa polverizzazione Botto&Bruno ne organizzano da tempo i passaggi, con una ricerca impenitente e ostinata, arricchendo di volta in volta il prisma indagativo e assottigliando la semiologia interpretativa, stirando le pieghe della narrazione. Questa Kids Town è, effettivamente, la piú raffinata enucleazione dello stato di rischio dell'individualità, di perdita di contatto tra soggetto e mondo, di crollo collettivo.
Non c'è solo l'adozione, quasi cinematica, del bianco e nero, in cui i personaggi si stemperano come figurine disanimate e disentificate. Piuttosto, Botto&Bruno ordiscono un puzzle attraverso il quale articolano la disamina: l'uso del collage non è solo uno stratagemma formale, una sorta di sofisticato battito rapper, ma è l'allusione diretta a quello stato di sbriciolamento totale a cui il soggetto deve ricondursi. E' dal desordre sociale che l'individuo deve ricostruirsi, dal magma riplasmarsi. Come in un collage, appunto, recuperarsi tassello dopo tassello e ricompattarsi. Non è neppure un caso che il disegno si smargina, attraversa la parete, piomba fino al pavimento, lo sbeffeggia e induce ad un work in progress in cui altri tasselli potrebbero aggiungersi. La location è sempre la strada, fenomenologia dell'incertezza esistenziale, su cui pende simile ad una minaccia, il "disastro" architettonico che spunta dietro il muro Parliamo di quella tipologia di "edilizia dell'assenza", quella che non è progettazione ma promessa inesaudita, quella che non è idea ma getto di cemento, quella che è un immondo object trouvé, luogo delusivo.
In questo spazio cellulare e implosivo, l'unica riconoscibilità è data da quell'universo immaginario del rock system. Quel caleidoscopio iconografico che descrive una rock town in cui collimano i miti disperati di Kurt Cobain e di Jan Carr, si snodano quelli dark di Nick Cave, quelli sintetici di PJ Harvey. E' il paradosso della modernità quello di triturare i miti nel suo congenito e spietato consumismo e di ritrovare le tracce della sua appartenenza attraverso i frantumi dei suoi stessi feticci. Cosí però non è per il video Kids Play, dove la digressione del soggetto nel limbo infantile, non ha ancora tracciato il suo percorso mnemonico e identitario, dove nel "recinto" sicuro di un luogo deputato al gioco non c'è ancora lo smarrimento della perdita. Anzi, sia pure nella claustrofobia spaziale, c'è ancora la tenera inconsapevolezza del proprio essere al mondo. Infanzia-adolescenza, metropoli-ghetto, identità-anomia: un gioco ubiquo per una coppia d'artisti obliqua è il gioco è fatto.
(1) Aziz Chouki A., La stella di Algeri, Edizioni e/o, Roma, 2004