• Olafur Eliasson
  • Noritoshi Hirakawa
  • Candida Höfer
  • Nzingah Muhammad
  • Sophy Rickett
  • Hannah Starkey

Durata
19 giugno - 12 settembre 2001

Silenzi: assenza di voci in paesaggi naturali o urbani, in luoghi pubblici, nelle relazioni; ma anche mancanza di titolo – chiave di lettura suggerita dall’artista che rende più esplicita la narrazione – o di punto di vista univoco nella lettura dell’immagine.

Il trittico A Prop of Ethics di Noritoshi Hirakawa (Fukuoka, 1960) può essere visto come ispiratore del tema della mostra: una spiaggia deserta, immagine classica della solitudine e dell’attesa; l’apparire improvviso di una figura femminile; una terza inquadratura da cui la donna è assente ma, piantato nella sabbia,  resta il bastone che le era alle spalle. 

Assenza e mancanza sono i temi su cui Sophy Rickett (Londra, 1970) costruisce le sue immagini con un’interna tensione tra luce e oscurità. Gli spazi rappresentati sono “non luoghi”, aree periferiche delle città attraverso cui si passa in transito verso qualche altra destinazione, viadotti, raccordi stradali, incroci deserti. Allo spettatore è richiesta una partecipazione attiva: scrutando con attenzione e a lungo l’inquadratura intensamente buia, egli scopre l’affiorare di una figura prima invisibile. L’accentuata orizzontalità della scena e la cancellazione della profondità di campo collocano il punto di vista di chi guarda in una posizione non definita.  

Nelle fotografie di Hannah Starkey (Belfast, 1971) donne, solitamente giovani, sono protagoniste di frammenti di storia di vita quotidiana nei luoghi anonimi della città contemporanea: donne sole, o donne che si guardano a vicenda, spesso riflesse in uno specchio, o estranee unite in uno stesso ambiente dalla messa in scena dell’artista. Sono figure immobili in una sorta di contemplazione, in attesa di qualcosa che può succedere ma di cui non è dato indizio esplicito, immagini ambigue e aperte a ogni interpretazione.

Candida Höfer (Eberswalde, 1944) ritrae luoghi pubblici solitamente affollati – la biblioteca di New York o dell’Università di Basilea, l’osservatorio astronomico di Los Angeles, sale di musei  – nel momento in cui sono senza utenti e visitatori, anche se in pieno giorno. L’assenza di persone e rumori li rende luoghi inconsueti alla percezione, quasi sospesi nell’interrompersi della loro funzione, in una pausa nel flusso di comunicazione tra i saperi e le informazioni custodite e i bisogni e gli interessi di chi vi accede.

Il paesaggio naturale islandese ha profondamente influenzato la visione di Olafur Eliasson (Copenhagen, 1967): una natura geologicamente giovane e potente, in costante evoluzione, un paesaggio che muta quasi a ogni passo; se il concetto di natura è immediato in quanto presente in un’esperienza comune, è al tempo stesso per Eliasson immensamente complesso e difficilmente rappresentabile, perché soggetto a mutazioni radicali a secondo della soggettività di chi guarda. Ne deriva una rappresentazione della natura, nelle installazioni e nelle fotografie, a cui sono la  disposizione percettiva e la diversità dello spettatore a dare voce e interpretazione.

Nzingah Muhammad  (New York, 1976), al suo esordio in Italia con un lavoro autobiografico, fotografa sé stessa e persone della sua famiglia in ambito domestico. Figure rigide, che guardano fisse verso l’obiettivo, assorte nei propri pensieri, o legate da gesti che lasciano immaginare la relazione e il messaggio, le parole sussurrate e i silenzi, l’incontro-scontro tra culture.