21.10.2023 > 17.12.2023
a cura di Marinella Paderni
Colonne28, Parma
Un albero ritratto in uno degli inverni della sua vita appare solitario, effimero, immemore. Sembra disegnato nella nebbia rarefatta della campagna attorno al fiume Po, quando la terra sprigiona vapore, freddo e silenzio. La sua bellezza spoglia, congelata dalle basse temperature, resiste al clima ingeneroso e alla distanza che l’uomo contemporaneo ha posto tra sé e la natura, anche quella modificata a sua immagine. Accanto a quell’albero, e ad altri suoi simili, alcune fotografie in bianco e nero ritraggono case coloniche abbandonate e cascine in rovina circondate dalla solitudine degli spazi vuoti, delle terre arate, ormai cimelio di un passato contadino di cui la società non ha quasi più memoria e si cura poco.
La fotografia di Paola De Pietri esplora da sempre le sottili differenze di tempo e di luogo che mostrano le azioni umane nel rapporto con la natura, quelle trasformazioni più o meno silenziose iscritte nel paesaggio italiano che in special modo rivelano lo spazio tra ciò che l’uomo è diventato e l’immagine della sua storia disegnata sul territorio.
Una distanza tra la pianura di oggi, spesso soggetta alla furia climatica, e il paesaggio pastorale di ieri, rappresentazione di una lunga età dell’uomo che lo sguardo dell’artista ha colto profondamente e condensato in fotografie liriche, atemporali, che suscitano un’emozione raccolta. Si sa, la Pianura padana non è la terra dei paesaggi spettacolari, la sua è una natura troppo disegnata dal lavoro dell’uomo da suscitare stupore. Ma proprio per questo ci appartiene di più, è così simile al carattere di noi abitanti delle terre a perdita d’occhio, dove la lontananza e il vuoto diventano spazi di racconto e magia.
L’uomo di oggi è uno spettatore vorace, naufrago di verità e di poesia; i suoi occhi sono tecnologici, leggono le immagini una dopo l’altra come lo schermo di uno scanner. La vita artificiale domina su quella palpabile delle stagioni, il consumo di bellezza fine a se stessa prevale sulla vita delle cose e i loro destini: il puro godimento estetico è un’attività che si può fare da soli e richiede poca partecipazione. L’insensibilità visiva è più comoda; chi consuma, divora le immagini secondo uno sguardo comune predefinito dai display, abituando l’occhio a inquadrare rapidamente e a scivolare sulle cose con leggerezza, soffermandosi giusto un istante e nulla di più. Invece, l’assaporare e il vivere i luoghi richiede presenza, desiderio, tempo, lentezza. E poesia, molta poesia, anche negli occhi di chi guarda.
Una vulnerabilità del vedere che riflette la disattenzione dell’uomo nella relazione con il mondo e la sua disabitudine a guardare davvero.