Un albero ritratto in uno degli inverni della sua vita appare solitario, effimero, immemore. Sembra disegnato nella nebbia rarefatta della campagna attorno al fiume Po, quando la terra sprigiona vapore, freddo e silenzio. La sua bellezza spoglia, congelata dalle basse temperature, resiste al clima ingeneroso e alla distanza che l’uomo contemporaneo ha posto tra sé e la natura, anche quella modificata a sua immagine. Accanto a quell’albero, e ad altri suoi simili, alcune fotografie in bianco e nero ritraggono case coloniche abbandonate e cascine in rovina circondate dalla solitudine degli spazi vuoti, delle terre arate, ormai cimelio di un passato contadino di cui la società non ha quasi più memoria e si cura poco.
La fotografia di Paola De Pietri esplora da sempre le sottili differenze di tempo e di luogo che mostrano le azioni umane nel rapporto con la natura, quelle trasformazioni più o meno silenziose iscritte nel paesaggio italiano che in special modo rivelano lo spazio tra ciò che l’uomo è diventato e l’immagine della sua storia disegnata sul territorio.
Una distanza tra la pianura di oggi, spesso soggetta alla furia climatica, e il paesaggio pastorale di ieri, rappresentazione di una lunga età dell’uomo che lo sguardo dell’artista ha colto profondamente e condensato in fotografie liriche, atemporali, che suscitano un’emozione raccolta. Si sa, la Pianura padana non è la terra dei paesaggi spettacolari, la sua è una natura troppo disegnata dal lavoro dell’uomo da suscitare stupore. Ma proprio per questo ci appartiene di più, è così simile al carattere di noi abitanti delle terre a perdita d’occhio, dove la lontananza e il vuoto diventano spazi di racconto e magia.
L’uomo di oggi è uno spettatore vorace, naufrago di verità e di poesia; i suoi occhi sono tecnologici, leggono le immagini una dopo l’altra come lo schermo di uno scanner. La vita artificiale domina su quella palpabile delle stagioni, il consumo di bellezza fine a se stessa prevale sulla vita delle cose e i loro destini: il puro godimento estetico è un’attività che si può fare da soli e richiede poca partecipazione. L’insensibilità visiva è più comoda; chi consuma, divora le immagini secondo uno sguardo comune predefinito dai display, abituando l’occhio a inquadrare rapidamente e a scivolare sulle cose con leggerezza, soffermandosi giusto un istante e nulla di più. Invece, l’assaporare e il vivere i luoghi richiede presenza, desiderio, tempo, lentezza. E poesia, molta poesia, anche negli occhi di chi guarda.
Una vulnerabilità del vedere che riflette la disattenzione dell’uomo nella relazione con il mondo e la sua disabitudine a guardare davvero.