La mostra si chiama White noise, Rumore bianco come il romanzo di Don DeLillo pubblicato nel 1985. E il titolo è lo stesso della grande opera che ci accoglie nella prima sala della galleria Peola. Un Botto&Bruno, senza dubbio – loro hanno quel tocco, un modo di “costruire l’immagine come se dipingessimo” irripetibile e inconfondibile – ma nello stesso tempo un’opera inedita per loro, apparentemente diversa dalle precedenti. È come se avessero allargato il punto di vista e ciò che prima era in primo piano si è allontanato, moltiplicando le immagini.
Però te le devi andare a cercare dentro questo paesaggio apocalittico abitato dall’invenzione letteraria della nube tossica che sconvolge le vite di Jack, professore universitario, della sua famiglia e della sua città dove tutto sembrava andar bene perché gli eventi si succedevano sempre uguali, anno dopo anno. Quando Botto&Bruno mi hanno mandato l’immagine di questo quadro ho fatto proprio così: ho messo lo zoom allo sguardo per scrutare ogni angolo di questo mondo in decomposizione. E ho scovato oggetti che appartengono al mondo dei due artisti, perché provengono dai luoghi che compongono la scenografia delle periferie del mondo. E queste, come sappiamo, si assomigliano tutte. Ecco la radio con i suoi altoparlanti, costruzioni di ruote di gomma per automobili, autobus fermi da chissà quando, macchine bruciate, case di lamiera, silos, gru, rovine, una tastiera, massi accatastati, piccoli e grandi esplosioni, frammenti di uomini e di donne di cui possiamo vedere solo una parte del corpo, mai il viso (e questo è tipico della coppia di artisti: celare sguardi, espressioni). Poi ci sono le parole, un bianco e nero chiamato a smorzare o a esaltare toni e timbri.
“Ogni piccolo frammento di immagine racconta una storia, è una traccia. Ognuno di noi, in base alla propria esperienza di vita, può ricostruire una storia personale”, dicono Botto&Bruno di quest’opera, nata dall’accumulo di centinaia di riviste su cui è avvenuta una selezione lenta, come tutta la realizzazione del quadro. I nostri artisti rivendicano un tempo dilatato nella costruzione dell’opera. E lo pretendono anche nella fruizione. Hanno ragione: le loro opere devono essere guardate a lungo, una volta si sarebbe detto contemplate, oggi la parola sembra desueta e addirittura portatrice di contenuti antichi, ma è un’azione, quella della contemplazione, che dovrebbe tornare a far parte dell’attività di chi guarda.
Dunque, contemplando questo mondo stratificato, una città che è diventata una gigantesca periferia che “trasuda caldo”, sembra sciogliersi, trangugiando nello stesso momento oggetti e storie, edifici e vite vissute al loro interno, anche io ho ricostruito il mio racconto personale. Immediatamente l’opera di Botto&Bruno si è accavallata al romanzo che stavo leggendo: le due cose nella mia immaginazione andavano di pari passo.
Ogni pagina di Exit West, l’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, quello de Il fondamentalista riluttante, si andava colorando con le tinte acide di White Noise, con le sue luci quasi isteriche, con quel mondo senza redenzione. Gli artisti e lo scrittore pakistano stavano raccontando la stessa cosa: quello che accade quando un paesaggio conosciuto si trasforma in un gigantesco animale misterioso, capace di abbattere, stritolare, di negare ciò che serve diventando una vera e propria trappola. Insomma, cosa succede se a vincere non è il cavaliere che salva la principessa, ma il drago che spalanca le sue fauci di fuoco. Nel libro di Hamid ci sono porte che puoi attraversare per arrivare in posti lontani, a cercare una vita migliore. E i due protagonisti, forti di un giovane amore, fuggono prima dal loro paese in guerra e poi da diversi campi profughi in cui vivono in condizioni sempre più difficili, finendo in una Londra spaventosa in cui migranti e autoctoni, abitanti del buio e della luce, si scontrano senza sosta. La musica, consolatrice per entrambi, è negata. Ad ascoltarla si rischia la vita. Anche qui radio e tastiere sono abbandonate, proprio come nei dipinti della nostra coppia. Ho immaginato che la città raccontata in White noise da Botto&Bruno, nata dalla suggestione di un romanzo, ne potesse accogliere altri: non solo quello apocalittico di Hamid che per me ormai lo aveva come sfondo continuo, ma anche Forte movimento di Jonathan Franzen, Eccomi di Jonathan Safran Foer. L’elenco si allungava, mentre si affacciava anche il cinema, l’ultima scena di America oggi di Robert Altman (ispirata dai racconti di Raymond Carver), sembra precedere di poco quella del nostro quadro.
Ora, se un’opera è capace di portarti in tanti luoghi diversi, vuol dire che ha vinto lei. Mostrando se stessa ha costruito mondi. E io ho deciso di non smettere di guardarla, perché sono sicura che questo paesaggio accoglierà molte altre storie. E non soltanto mie.
C’è poi una grande sala in bianco e nero dominata dal disegno. “A differenza degli altri lavori siamo partiti dal fantastico per raggiungere il reale, è stato come attuare un procedimento opposto a quello abituale”, spiegano gli artisti. E infatti il punto di partenza sono Ventimila leghe sotto i mari di Verne e le illustrazioni d’epoca conservate nel tempo da questi due accumulatori seriali di immagini. La stanza, con i fogli stropicciati che ne occupano la parete, diventa una grotta abitata da una natura che sembra volersi riprendere i suoi spazi. Anche qui il tempo di esecuzione sceglie la strada della lentezza: sono migliaia di piccoli segni realizzati con il pennello che si utilizza per gli ideogrammi giapponesi a sovrapporsi (ancora un processo di stratificazione) alle vecchie immagini che a poco poco sono inglobate in una vegetazione nera e vibrante, forse spaventosa, ma comunque viva. Al centro c’è un collage con i temi di Botto&Bruno. E tu pensi che se tutto va come deve andare, la natura, lasciata in pace, dimenticata, nascosta, ritroverà anche i suoi colori.
L’ultima stanza è abitata da un lungo fregio in bianco e nero che ogni tanto si allarga per farci assistere alla ricomposizione di un paesaggio. A me è venuto in mente il film Mommy di Xavier Dolan. Il regista proietta il suo struggente viaggio nel dolore di una madre e di un adolescente tutto in verticale, in una dimensione inusuale per uno schermo cinematografico. Solo quando sembra possibile un’idea di felicità, fa allargare l’immagine. Proprio dalle mani del ragazzo protagonista che apre la scena come avesse tolto un sipario. Botto&Bruno fanno qualcosa di simile: la dimensione cambia quando c’è posto per un’idea di serenità. E loro sono lì ad aprire la scena. Anche questi ultimi paesaggi hanno delle tracce di una vecchia malattia, ma a differenza del primo altri sembra siano in grado di riconoscere una cura. Il finale è aperto. A ognuno il suo.