Torino, 1 ottobre
Caro Gregorio, stavo riflettendo sul titolo che mi hai proposto per la tua mostra in galleria, È una cosa naturale, e lo trovo evocativo. Mi riporta alla mente il ricordo di quest’estate, quando sono venuta a trovarti a Roma: il viaggio in scooter verso il tuo laboratorio, le fitte canne di bambù che lo circondano, l’EUR in lontananza, gli echi di Pasolini nel suo ristorante Al Biondo Tevere. Nel tuo laboratorio il suono del bronzo e del vetro si mescola alle lastre di cera, la carta di riso ai fiori, il rame si lega con l’acqua e il fuoco. Qui, Roma sembra quasi scomparire. Eppure è stato in assoluto il momento in cui ho avvertito più intensamente di viverla e respirarla. Ho scoperto insieme a te una Roma che non conoscevo, la “tua” Roma, la “tua” storia. Una “storia naturale”. Se ci pensi, “naturale” è un termine che riguarda la natura, ma indica anche qualcosa che possiede freschezza, genuinità e spontaneità. E per me le tue opere, così come il tuo mondo, trasmettono esattamente questa sensazione. Sì — È una cosa naturale — mi piace moltissimo. Mi piacerebbe sapere cosa significa per te.
- F.
Roma, 2 ottobre
“Perché l’hai fatto?” “Perché sì, è una cosa naturale”. Ecco, cara Francesca, mi piacerebbe che nell’arte ci fosse questo livello di essenzialità. Certo, so che l’arte è artificio — nel senso letterale del termine — visione culturale, pensiero. Ma tutta la sua storia, la sua incredibile complessità, va riportata ogni volta alla sua origine, al suo venire al mondo: che è un atto gratuito e in qualche modo inspiegabile. Perché, come scrive Emily Dickinson: “La bellezza non ha causa, esiste”. E infatti a volte, nei momenti più felici, l’opera ci arriva inconsapevolmente, come se fluisse da una sorgente segreta. Molti artisti hanno raccontato questa esperienza. Ti cito uno per tutti, il mio amato Klee: “Le opere sembrano nascere da sole, è come se mi aiutassero forze amiche…”.
Ma ci sono altri motivi che mi hanno spinto a scegliere questo titolo. Uno è la parola cosa. Viviamo sempre più esperienze dematerializzate, virtuali, fatte di solo software. Un mondo di non cose, come le ha chiamate il filosofo Byung-Chul Han. Penso che questa separazione abbia qualcosa di tragico. Per me è importante invece il rapporto con il corpo, con la fisicità della vita e dunque dell’arte. Le opere stanno nello spazio. Sono spazio. Spazio carico di segni, di passato, di senso. Anche per questo lavoro con materiali come la cera, l’acqua, le foglie e i fiori, la carta di riso, il piombo, il marmo, il vetro. Sono tutte materie legate al nostro DNA antropologico, ci richiamano alla nostra cosità: al nostro essere incarnati.
- G.
Torino, 6 ottobre
Penso che la tragicità non risieda solo nelle non cose, spesso sono proprio le cose a contenere la rovina del nostro tempo. Siamo circondati da una materia che sembra estranea all’estetica, da oggetti effimeri, destinati a essere consumati in un istante, e da un flusso temporale che inghiotte il presente. La tua arte ci libera da questa condizione e ci trasporta in un tempo diverso, sospeso ed etereo. Penso alla campana tibetana, un elemento che compare spesso nelle tue opere. A volte è silente, immersa nell’acqua, altre volte è sospesa in equilibrio o sorretta da delicate e fragili lastre di vetro. Quella che esporremo in mostra suona, sfiorata a ritmo cadenzato da un peso che si muove nello spazio. L’incontro e la separazione tra i due elementi produce un’alternanza tra suono e silenzio, e così entrambi diventano materia. La loro fisicità riesce a raggiungere le corde più intime del nostro corpo e della nostra mente, consentendoci di avvicinarci a livelli più profondi di percezione e comprensione della vita. Questo ci permette di connetterci con il nostro DNA antropologico, quello di cui parlavi prima. Forse è per questo che quando chiudo gli occhi e mi immergo mentalmente tra le tue opere, mi ritrovo nella caverna di Platone, o seduta tra maestosi cedri o tra le suggestive rovine dell’antica Ayutthaya. Riesci a farmi viaggiare con la mente in luoghi e non luoghi. E poi ci sono le tue pietre…
- F.
Roma, 8 ottobre
Le pietre, sì. Anche quelle ci parlano del nostro essere incarnati, del nostro avere un corpo, abitarlo. Siamo fatti di peso e di aria, di gravità e di leggerezza.
Non percepiremmo la levità se non percependo anche il suo contrario, il pondus. Gli aerei non volerebbero se l’aria non avesse una sua gravità: è la pressione atmosferica che li sostiene in cielo. È un’esperienza comune per chi medita: percepire tutta la pesantezza del corpo che si placa, mentre la mente lentamente si calma, si silenzia, si fa vuota. Le pietre stanno: antiche, immobili, irriducibili. Testimoni di un tempo geologico lentissimo, mentre la vita danza loro intorno ad altre velocità. Ecco, il tempo: un altro elemento che amo indagare. Hai notato che “tempo” e “acqua” condividono gli stessi vocaboli? Scorrono, fluiscono. Hanno, l’uno e l’altra, un loro corso.
- G.
Torino, 9 ottobre
Non ci avevo pensato, ma è affascinante notare che le parole “tempo” e “acqua” abbiano in comune gli stessi vocaboli. Tra l’altro entrambi sono elementi in divenire. Se si cerca la sua etimologia, si scopre che la parola “acqua” ha una radice indoeuropea, da “ak”, che significa piegare. L’acqua si piega e assume la forma di ciò che la contiene, ma allo stesso tempo plasma la materia con cui entra in contatto. Pensa al deserto del Mangystau, per poterlo scolpire l’acqua e il tempo, complici, hanno agito insieme nei secoli.
Ci sono altri due concetti che ritornano spesso nel tuo lavoro: il visibile e l’invisibile, ciò che emerge e ciò che l’occhio riesce a scorgere al di là di una sottile traccia di nero fumo, di grafite o nascosto sotto uno strato di alabastro translucido. Ed ecco che mi ritorna in mente Platone: “Non sono gli occhi a vedere, ma noi a vedere attraverso gli occhi”. Anche lui, nei suoi miti e nelle sue allegorie, ci parla di cose e idee.
Non so dirti esattamente perché mi venga in mente Platone quando penso al tuo lavoro, ma hai mai considerato l’influenza del suo pensiero sulla tua arte?
- F.
Roma, 11 ottobre
Beh, Platone è un fiume che attraversa e irrora tutta l’arte occidentale: a volte in modo segreto, a volte in modo manifesto. Il mito della caverna è fondativo: ciò che vediamo è un’illusione, c’è un altro mondo che dobbiamo scoprire. Se ci pensi anticipa di due millenni la fisica e l’astrofisica moderna che ci scaraventa in un mondo nuovo, dove la materia finita racchiude abissi di infinito, dove l’universo non solo non è più rappresentabile ma si colloca ai limiti del pensabile: mi riferisco, ad esempio, al principio di indeterminazione di Heisenberg contro il quale Einstein ha così a lungo, e inutilmente, combattuto. C’è una tensione costante tra quel che sappiamo e quel che vorremmo, e forse potremmo, sapere. Noi siamo consapevoli che la nostra visione, ogni nostra visione, è frammentaria, momentanea, incompleta: eppure siamo ugualmente abitati da un desiderio di totalità. Questo desiderio è il soggetto del mio lavoro: le mie forme sfuggenti, le mie ombre, i miei alabastri, gli interni inviolati dei miei angeli di cera sorgono proprio lì, al confine tra visibile e invisibile.
- G.