Il sogno della pittura non sempre genera mostri
Non c’è grande artista che non abbia avuto il suo periodo nero.
Alberto Burri ha dedicato un intero ciclo di cellotex al nero, a partire dall’opera intitolata Non ama il nero; di Francis Bacon ammiriamo i cosiddetti Black Paintings, dipinti degli ultimi anni e forse uno straordinario preludio al fatidico passaggio, per non dire dei dipinti che Mark Rothko realizzò per la cappella progettata da Philip Johnson a Houston, privi di luce e installati post mortem. Senza dover prolungare l’elenco né ovviamente inserirvi gli artisti per cui il nero è stato il loro colore fondamentale a prescindere dal periodo della vita, nei casi sopracitati si tratta di opere della maturità avanzata, se non appunto letteralmente tarde.
Il ciclo Terzo Purgatorio di Gabriele Arruzzo è senza dubbio una serie di opere al nero più di quanto abbia mai fatto fino ad oggi (e poco ha fatto in tal senso, se escludiamo un certo gusto noir in molte delle sue opere precedenti, spesso prove indiziarie di misfatti, assassinii o delitti irrisolti). A differenza però degli illustri casi sopracitati, non si tratta di un’opera tarda dal momento che Arruzzo è ancora lontano dal suo stile ultimo (piuttosto lo diremmo uno sbarazzino mid career). Ma proprio per ciò il motivo nero del ciclo (quasi un notturno in sordina) risulta interessante.
Le opere, dipinte tra 2023 e 2024, escono fuori, e forse non a caso, dopo un anno di cambiamenti importanti nella sua vita. Sono dipinti di transito esistenziale, ma anche di impronta stilistica nuova, rigorosi, coloristicamente più asciutti e tecnicamente più impegnativi, iconograficamente più “cattivi” e precisi di quanto il pittore avesse mai fatto. Sono opere più mature senza dubbio, che segnano un mutamento, aprono una porta.
Intanto partiamo dal titolo: Terzo Purgatorio. Il tempo in cui si pone Arruzzo è quello di espiazione, purgatoriale appunto, di attesa davanti alle porte del Paradiso che accoglierà a tempo debito l’espiante. Questo ciclo è stato realmente dipinto in un tempo sospeso della sua vita e in questo limbo non ozioso, a differenza del Paradiso, il tempo esiste ed ha una scadenza.
Del resto l’arte stessa di Arruzzo è un enorme archivio dormiente di immagini di ogni tipo, raccolte con la stessa passione di un pignolo guardiano di Mnemosyne, immagini del nostro tempo e di tempi passati, classificate in file scrupolosi dove è possibile trovare di tutto (anatomie umane, santi e madonne, giochi per bambini, armi, segnaletica, ingranaggi, disegni e incisioni didattiche e scientifiche o tecniche, riviste illustrate di tardo Ottocento e la lista potrebbe continuare per molte altre pagine).
Da questo pozzo senza fondo escono le immagini che poi saranno modificate, ritagliate, ricucite, smembrate, come se un Dottor Frankenstein avesse messo mano al bisturi per ricomporre un “cadavere squisito” e dargli nuova vita. Dal magazzino di surreali memorie sezionate, prelevate, pulite, accostate, integrate, asciugate, suddivise per generi e tipologie escono fuori opere complete, il cui significato però sfugge ad ogni tentativo di spiegazione.
Seguendo il metodo del collage di Max Ernst in La Femme 100 tétes o Une semaine de bonté, Arruzzo compone chirurgicamente quelli che sembrano rebus visivi e indovinelli. Il senso ultimo di queste pitture è però un purgatorio iconografico e semantico, tutto viene rimandato di immagine in immagine e il significato mai completato, come se fosse in attesa di una soluzione, che ovviamente non è mai precostituita. In Arruzzo non avviene nessun disvelamento di alcuna verità in pittura bensì un occultamento en abysme ed essa rimane dentro il quadro, in un gioco di specchi che rendono le immagini caleidoscopi di se stesse.
Quadri nel quadro, tendine scostate o coprenti, cavalletti da pittori con tele, fondali, velari e sipari allo stesso tempo, tentativi di tratteggiare il folto di un bosco con elementi che sono macchie astratte di sapore pollockiano, tele bianche che fanno da specchi ciechi o muri divisori: il progetto pittorico di Arruzzo si disfa mentre si fa, perché seppur procede e viene gettato in avanti (secondo un anticipatorio pro-getto), non segue razionali logiche associative. Potremmo pensare che la verità sia celata (in fisica la chiameremmo “variabile nascosta”), anche se nella fisica quantistica il processo si regge sull’aleatorietà e la probabilità, e quindi non ci sono verità nascoste: la verità è nel suo essere sovrapposta e indeterminata.
Per certi versi la pittura di Arruzzo gode di tale aura di indeterminazione e sovrapposizione di sguardi e prospettive murate, a raffigurare situazioni piene di oscuri presagi e misteri, con pittori al lavoro su tele i quali però diventano anche violinisti/e, dottori esoterici e anatomisti o portatrici di lanterne magiche in una trasmutazione continua dello stesso in altro.
Potrebbe trattarsi in fondo di un unico tema declinato in tanti: l’allegoria della pittura e del dipingere in epoca contemporanea, nulla più. Gli intrecci post o anti narrativi e le complesse raffigurazioni non sono altro che delle coperture per nascondere il fatto che schermi di proiezione, tele, telai, ricordi, allucinazioni, palcoscenici, tende ci dicono della finzione che è alla base del processo pittorico. Una mimesi falsata, dai colori artificiali (con smalti argentei e brillantine in vista), in cui ombre prendono corpo dal buio, si fissano luci sorde, intimiste e assorbite, si manifestano bricolage di frammenti che non trovano un senso se non appunto dentro il quadro, come se l’artista avesse preso Paolini, Adami, Ernst, Magritte, Polke, Rauch e, per usare una sua espressione, li avesse “messi nel frullatore”. Il risultato non ha eguali nel panorama pittorico italiano contemporaneo e non è una poltiglia informe, perché l’accumulo delle immagini in Arruzzo è a suo modo scientifico, ossessivo, accurato, classificatorio. Di fatto non c’è il puro caso al di sotto, come se tutto fosse inconscio o un lancio di dadi. È una verità in filigrana, ma non oltre la filigrana, bensì coincidente con essa. Nel momento stesso in cui l’osserviamo la perdiamo come tale e la fissiamo come immagine. Piuttosto la potremmo pensare una forma di revisione dell’inconscio ridotto a immagini di memorie prelevate da archivi impersonali.
In Arruzzo sembra che gli elementi delle sue opere debbano coesistere in sovrapposizioni ma non possano essere isolati, misurati, registrati (e quindi interpretati), pena la loro disconnessione, la loro caduta e collasso, la perdita stessa dell’opera. Alla base non c’è ovviamente la poetica postmoderna dello slogan “tutto va bene”, ma una logica disfatta e a suo modo decadente, dal sapore ottocentesco e attualissimo, perché disfatta è la trama dei significati della nostra epoca sul viale di un melancolico tramonto.
Marco Tonelli