C’è una domanda che attraversa il romanzo Cel mai iubit dintre pămȃnteni (Il più amato tra i terrestri) di Marin Preda come una lama: cosa resta dell’essere umano quando tutto ciò che lo circonda tenta di sottrargli la libertà — la politica, la storia, il mito stesso del progresso? Victoria Stoian, che della cultura evocata da Marin Preda porta un’impronta profonda, accoglie questa domanda e la spinge oltre: la conduce alla terra. Non un suolo metaforico o pacificato, ma una materia viva e minerale, capace di conservare l’eco delle mani, dei conflitti, dei gesti domestici e delle cicatrici di chi l’ha attraversata.
La mostra nasce qui, in questo incrocio tra memoria, amore per la propria terra ed esigenza di essere nel mondo. Il più amato tra i terrestri è lo specchio di una società in cui l’individuo è costretto a misurarsi costantemente con le ombre del potere. Victoria Stoian riparte da questo romanzo per recuperarne la lezione più profonda: quella di un essere umano che cerca nella materia un modo per non scomparire. Nelle sue opere non c’è allegoria: c’è corpo. Non c’è distanza: c’è una vicinanza che brucia.
Le tovaglie ricamate da sua nonna, esposte come fossero superfici geologiche che dialogano con le sculture in terra cruda, incarnano questo principio. Non sono reliquie né nostalgie: sono un passato che ancora pesa, che non si lascia romanticizzare. La loro trama custodisce un’ostinazione quotidiana, una forma di resistenza silenziosa, femminile, domestica — ma niente affatto docile. Sono l’inizio di una genealogia che non idealizza la famiglia, bensì ne mostra la materialità: fili tirati, bordi consumati, gesti ripetuti fino a diventare linguaggio.
In questo dialogo entra anche il bronzo, materiale ancestrale che nelle nuove sculture rimette in circolo rituali, simboli e forme radicate nella tradizione moldava. Le sculture e i tessuti — entrambi ripresi e trasformati nei dipinti — diventano motivi, presenze totemiche, frammenti di un immaginario che affonda nelle pratiche comunitarie, nei riti contadini, nei gesti trasmessi di generazione in generazione. Questa rete di segni costruisce un linguaggio visivo che è memoria incarnata: ciò che si trasforma ma non si estingue. In esse sta la prima risposta alla domanda del romanzo: la libertà non è un concetto, è una fibra.
La libertà e l’amore sono l’intreccio capace di tenere assieme pittura e scultura, la terra cruda e il cielo, un cielo che nelle tele di Stoian rifiuta ogni trascendenza. Non è un cielo medievale, né sacro, né metafisico: è un cielo terrestre, un cielo che pesa. Un cielo moldavo rosa e azzurro — in una tonalità mai più ritrovata dall’artista in nessun altro orizzonte — attraversato dalla luce bassa delle alture e dalla calma dopo le tempeste. Uno spazio che si offre allo sguardo ma non lo eleva: lo riconduce al suolo. È il cielo che, nel romanzo, Victor Petrini osserva disteso sulla terra nera, quando sente che la sola promessa di pace è la vicinanza radicale al mondo, non la fuga da esso. Stoian intercetta quella stessa vibrazione e la trasforma in pittura: il cielo non come promessa, ma come appartenenza. Ecco quindi apparire l’orizzonte per la prima volta nella sua pittura: quel legame che tiene assieme terra e cielo, amore e libertà.
Dentro la tela la scrittura compare e scompare. A volte è timbro, a volte ferita; altrove è cancellazione deliberata, forma di pudore o di dissenso. Una frase, soprattutto, ritorna come un’intuizione antica: “dacă dragoste nu e, nimic nu e…” — se l’amore non c’è, niente c’è. Stoian la lascia affiorare, poi la ricopre di pittura: ne resta un fantasma, un’eco. Nel romanzo la coscienza del protagonista è costretta a interrogarsi sul senso dell’etica, della sopravvivenza, della dignità; nelle opere di Stoian la parola diventa un sedimento emotivo, qualcosa che esiste anche quando non è più visibile. Come se la pittura dicesse: ciò che è necessario resta, anche se è nascosto.
La mostra procede così, per stratificazioni: non sono capitoli, ma zone di densità. Ogni opera è un frammento di un racconto più grande, una stazione di un viaggio che non è lineare ma circolare, come la memoria stessa. Le figure, quando appaiono, non hanno identità definite: sono terrestri, pământeni, esseri che portano il suolo sul volto e nelle mani. Sono la terra che cade e che si rialza, come i personaggi di Preda costretti a misurarsi con la brutale logica della storia.
Ciò che emerge è una politica senza slogan: una politica del vivente. Le tele trattengono la tensione tra corpo e potere, tra radice e sradicamento, tra la possibilità di essere e l’obbligo di adattarsi. Ma attraverso questo groviglio materico, Stoian costruisce una via d’uscita che non è ideologica: è affettiva. L’amore, nella sua opera, non è sentimento romantico: è forza generativa, condizione necessaria per qualsiasi idea di equità. Amore come possibilità di riconoscere l’altro, di ascoltare la sua voce anche quando balbetta, di custodire la sua vulnerabilità.
Per questo le sue superfici sono così fisiche, così imperfette, così cariche di tracce: perché l’amore, che nel romanzo appare come ultimo baluardo contro la disumanizzazione, qui diventa pigmento, gesto, trama. Si manifesta come un atto di responsabilità: se l’amore manca, manca il mondo; se l’amore si sottrae, nessuna libertà è possibile.
In Pământeni, Victoria Stoian non illustra Preda. Lo estende. Ne porta il pensiero al presente, dove le forme della coercizione sono mutate ma non scomparse, e dove la terra — reale, politica, simbolica — resta il luogo da cui ripartire per immaginare un’altra possibilità di esistere. Una possibilità fragile, ma essenziale: quella di essere, finalmente, terrestri.