La Galleria Alberto Peola ha il piacere di ospitare la seconda personale di Eva Frapiccini.
La ricerca artistica di Frapiccini indaga l’influenza e la permanenza dei condizionamenti politici e culturali nei processi di creazione del ricordo. Spesso i suoi lavori nascono dalla conoscenza ed esperienza personale di Paesi stravolti da eventi politici, per indagare il tema dell'identità e le sue forme invisibili di espressione.
Cristina Baldacci
Il gioco delle antitesi
Se assumiamo il postulato che non c’è memoria senza oblio, allora possiamo anche confermare che non esiste memoria senza selezione. Scegliere è un’azione indispensabile e anche naturale: tutto o quasi ha infatti origine da una selezione (biologica, culturale, sociale…) fatta a partire da una totalità. Disfarsi di ciò che è vecchio e superfluo permette di dare spazio al nuovo; di fare ordine tra le cose da ricordare e quelle da dimenticare; di ristabilire l’equilibrio tra il visibile e il sommerso. Tutti questi aspetti sono fondamentali per la vita di un archivio.
L’“amnesia selettiva” di Eva Frapiccini, non equivale, come per la sfera psicoanalitica, a una perdita, seppure momentanea o circoscritta, di memoria. È sì l’altra faccia di Giano della “memoria selettiva”, ma essendo stata eletta a pratica artistica – e per questo basata perlopiù su una selezione intenzionale – genera un vuoto necessario, che non è oblio ma spazio del pensiero o, come direbbe Aby Warburg, Denkraum.
Uno spazio che l’artista usa per riflettere e farci riflettere sulla complessità dei processi mnestici – e sulla migrazione delle immagini –, sia quando riguardano la sfera del ricordo privato, sia quando hanno a che fare con la storia collettiva. In entrambi i casi, il ricordare è soggetto a condizionamenti di diversa origine, psicologici, fisici, politici, sociali, culturali; soprattutto quando ad essere coinvolte sono forze come l’imposizione, il controllo, il dominio.
Per questa mostra, Frapiccini rievoca alcune immagini dal passato. Si tratta di ricordi di viaggio, fotografie fatte in paesi vicini e lontani, sguardi su mondi che l’artista ha imparato a conoscere anche attraverso l’obiettivo. Dopo un periodo di sedimentazione – i due soggiorni nei paesi arabi risalgono a qualche anno fa –, ha ripreso in mano quelle foto e ha cominciato a sceglierle seguendo “un’idea di sospensione”, di intervallo tra un’immagine e l’altra. Non le ha poi però montate e messe in scena in forma di album, atlante, collezione o database (la struttura in mostra, che contiene otto foto della serie Lamine, è più una vetrina o cornice espositiva che un archivio). Invece di lavorare sulla moltitudine, si è concentrata su singole immagini, che ha isolato e modificato. La sua è una ricerca sulla fotografia come archivio di informazioni e tramite di memoria, più che una ricostruzione o riattivazione dell’archivio in sé.
Come appunti di viaggio, le immagini scattate in giro per il mondo sono impressioni di situazioni e luoghi, suggestioni momentanee fissate senza un proposito progettuale. Appartengono infatti all’archivio privato dell’artista ed è la prima volta che lei attinge a questo deposito fotografico della memoria per i suoi lavori. Soltanto dopo essere state sottoposte a un accurato spoglio, riadattamento, scelta delle dimensioni e del supporto per la nuova stampa, assumono un preciso valore artistico, perdendo progressivamente la loro funzione documentale. In esse la storia si sbiadisce o si stratifica.
Nella serie intitolata Velluto, Frapiccini sceglie alcuni dettagli fotografici a cui sono legati particolari ricordi e stati d’animo – dettagli che operano come il punctum barthesiano – e li astrae ingrandendoli. Estrapolati dal contesto, questi frammenti fotografici o mnestici diventano muti, perdono la loro funzione referenziale e segnica, diventano pura immagine (non a caso sono simili a monocromi).
Le cinque fotografie di Prigione Dorata. Scoprendo la sudditanza, fatte al Cairo e in Bahrein*, sono invece il risultato di una sovrapposizione di immagini diverse, montaggi visivi che svelano i possibili livelli di informazione – ma anche, nel caso degli scatti del Bahrein, la loro eloquente mancanza – che la fotografia, e con essa metaforicamente la memoria, racchiude. Queste foto sono palinsesti che alludono a un’archeologia del tempo e dello spazio. Come pergamene di carta cotone si srotolano e si arrotolano, mostrando o nascondendo ciò che portano inciso.
Nei lavori dedicati al Bahrein sotto all’apparenza, alla prima immagine, non ce n’è un’altra. La superficie rimane bianca come una tabula rasa ed è indice di una cancellazione della memoria che ci parla della repressione e censura di un regime ancora di fatto totalitario, nonostante la dichiarata apertura a occidente. Nelle immagini del Cairo la stratificazione invece esiste: arrotolando il lembo della prima foto-pergamena ne compare un’altra. È una stratificazione complessa che mostra l’eclettismo storico-culturale di una società oggi postcoloniale, dove si uniscono oriente e occidente, meridione e settentrione; dove i ricordi di un passato glorioso si sommano a quelli di un presente incerto; dove la Sfinge convive con insegne commerciali e fumettistiche di ogni parte del mondo.
È la presenza o sopravvivenza delle contraddizioni (visive) tra passato/presente, ricordo/oblio, memoria selettiva/amnesia selettiva: il gioco delle antitesi.
*La serie Prigione dorata. Scoprendo la sudditanza è stata realizzata durante la residenza presso The Townhouse Gallery, Cairo (2012), nell’ambito del programma RESÒ - International Network for Artist Residencies and Educational Programs /Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea-Crt e durante la residenza presso Al Riwaq Project Space, Manama, Bahrein (2014), in occasione del Festival di arte pubblica Alwan 338. Foundations, a cura di Alexandra Stock.